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Oltre l’aula: storie di ordinaria follia degli insegnanti “speciali”

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Quante volte avrete sentito dire: “fare l’insegnante è una missione”, “fare l’insegnante è il lavoro più bello del mondo”, “insegnare significa “lasciare il segno”: si, il segno c’è, ma te lo lasciano gli alunni, ed ha una forza di un autoarticolato cinque assi.

Chi sono io per dire questo? Una militante della categoria naturalmente, anzi, come direbbero quelli della linea “inclusiva” : sono l’insegnante di sostegno di tutta la classe. Suprema autorità per le uscite al bagno, pastore (alcuni colleghi utilizzerebbero il termine “guardiapecore”) di un gregge scapestrato, rumoroso, inquieto e a tratti sonnolento, formato da giovani virgulti con i brufoli al viso e la vocina bianca, la vita dell’insegnante di sostegno è in bilico tra l’osservanza delle regole dei colleghi curriculari e la voglia di scatenarsi con i ragazzi.

Situato nella terra di mezzo, il docente di sostegno si siede solitamente con i ragazzi che gli sono assegnati, ben lontano da cattedre o scranni ed è sempre pronto a coprire le marachelle di qualche alunno che, invece di capire come sono le colonne greche, costruisce pistole con la carta e, di quello insofferente che ha bisogno di evasione attraverso il “tram tram” del bagno.

Apparentemente qualche benpensante potrebbe obiettare che non ci sono più i ragazzi di una volta, che gli insegnanti non riescono a tenere la classe ( quest’ultima devo dire è una delle accuse più gettonate) o che non siamo in grado di capire le esigenze dei ragazzi: io credo invece, che ci sia una motivazione molto più profonda e più “emergenziale”: l’enorme frattura tra chi “pensa” alla scuola e chi invece, la scuola la “vive” tutti i giorni, anche in quelli assolati, dove il caldo ti distrugge e vorresti fare lezione fuori con un idrante sempre aperto, o in quelli delle allerte meteo, dove arrivare a scuola è già complicato con l’auto figurarsi a piedi o con lo scooter elettrico: è una scuola piena di stampanti laser 3D, di visori digitali, di risorse finanziarie del PNRR ma manca, forse, la cosa più importante: la possibilità di formare i ragazzi al meglio delle loro possibilità, di educarli ad accettare un rifiuto, di formare il loro pensiero critico, che non emerge dalle prove INVALSI, ma da qualcosa di molto più immediato: ascoltandoli e dandogli gli strumenti per affrontare le difficoltà senza la mano degli adulti.

Insegnare significa “lasciare il segno”: si, ma deve essere un segno che ti stravolge la vita, che te la migliora, che possibilmente ti fa sbattere la testa ma da quel segno, puoi imparare a brillare da solo.

Per tutta la tua vita.

Francesca Barnabà

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